Il suo aspetto sembrava scolpito da un artista ossessionato dalla bellezza tragica. Il volto, pallido e perfetto come marmo lunare, era attraversato da linee affilate e simmetriche, come se la geometria del destino stesso vi avesse inciso la sua firma. Gli zigomi alti, marcati, parevano fenditure nella roccia contro cui si infrangono i venti del tempo, dando al viso un’aura austera, quasi nobile.

Gli occhi, del colore del mare in tempesta, mutavano sfumature con la luce: a volte chiari e sereni come acque costiere, a volte cupi e profondi come l’oceano sotto la luna. Erano occhi vivi, carichi di ombre, dove la luce si infrangeva e svaniva.

I capelli, lunghi e scarmigliati, avevano il colore ardente di un incendio al tramonto — rosso scuro, con riflessi ramati che parevano bruciare appena sfiorati dal sole. Ricadevano con morbidezza sulle spalle, incorniciando il viso come fiamme domate, ma mai spente.

Il fisico era alto, slanciato, armonioso come un disegno rinascimentale. La sua struttura affusolata tradiva una forza controllata, come quella di una lama appena sguainata: sottile, ma letale.

Addosso portava un mantello lungo, nero come la pece, che cadeva dritto fino ai talloni, dal colletto rialzato e rifinito con ornamenti argentei filigranati come venature d’inverno. Il mantello era stretto in vita da una triplice cintura intrecciata, ogni fascia sovrapposta all’altra con precisione rituale: cuoio scuro, borchie metalliche brunite, e fibbie lavorate in argento annerito, come se ciascuna racchiudesse un frammento della sua storia. La triplice cintura non solo segnava la vita sottile, ma teneva raccolta la stoffa con l’eleganza contenuta di un sigillo.

Le mani, affusolate, con dita lunghe e articolate come quelle di un liutista, completavano l’immagine con movimenti misurati, precisi, come se ogni gesto fosse tracciato con la punta di una penna invisibile.

L’intero aspetto era un manifesto visivo: un inno silenzioso al sublime e all’ineluttabile. Una bellezza studiata e crudele, come il finale perfetto di un dramma scritto per non lasciare superstiti.

C'erano giorni, un tempo, in cui il sole si spezzava sull'acciaio lucente dell'onore, e i nomi pronunciati tra le torri si portavano dietro echi di gloria e condanna. Gizel Godwin era uno di quei nomi—una spada forgiata nell’ambizione, temprata nel silenzio dell’attesa.
Non nacque eroe. Né si fece tale.
Egli fu l’ombra che osserva il falò degli ideali ardere sino alla cenere. Aveva un amico. Un fratello, quasi. Un giovane dal cuore puro, tutto ciò che Gizel non era mai stato, o non si era mai concesso di essere. Insieme ridevano come fa la luce sull’acqua: uno scintillio che nasconde l’abisso sottostante. Ma la storia non ama l’equilibrio. È una ruota che si nutre del crollo degli innocenti.
Quando la guerra si abbatté sull’Impero, come un corvo che dispiega le ali sopra i campi di grano, Gizel fu chiamato a scegliere. E scelse. Con la freddezza di chi ha imparato a disegnare mappe del potere sulla pelle degli amici. Tradì. Non per odio. Non per vendetta. Ma per costruire un futuro dove il caos avesse un padrone. I popoli lo videro come un tiranno. Il suo stesso padre, l’arcigno Marscal Godwin, iniziò a temerlo.
Eppure Gizel non vacillò. I suoi piani erano fili tesi come ragnatele dorate: invisibili, letali. Colui che un tempo chiamava fratello divenne la sua nemesi. La loro amicizia, come un castello di sabbia al sopraggiungere dell’onda, non poté resistere. In uno scontro finale, non tra eserciti, ma tra anime lacerate, Gizel cadde. Non ucciso. Non umiliato. Ma compreso. E fu quella comprensione, più della spada, a finirlo. S'allontanò in silenzio, nell’ombra, tra colonne spezzate e sogni infranti.
Ma c’è chi dice che il suo spirito ancora cammini tra le stanze del palazzo. Non per tormentare, ma per ricordare. Che anche gli eroi possono essere carnefici.
E che, talvolta, i traditori… sono solo sognatori che hanno smarrito la via.